Le insidie al giorno d’oggi nel trovare film horror di qualità sono molteplici, si nascondono dietro l’angolo, dietro la facciata di una locandina ben editata o in uno spot di pochi secondi in grado di gelare il sangue. Il problema sta proprio nella gigantesca proposta che si ha sul mercato, soprattutto con l’avvento delle tante piattaforme di streaming.

Tra i vari Prime Video e Netflix si è dato modo ad artisti emergenti e non, di far conoscere i propri lavori al mondo intero senza filtri, lavori che magari non sarebbero mai stati portati al Cinema sul grande schermo dalle più note case di distribuzione. Dare l’opportunità a tanti di poter produrre le proprie opere però, ha anche i suoi lati negativi, la quantità difficilmente va di pari passo con la qualità e quindi ci si ritrova spesso di fronte a film di bassa levatura artistica, con poche buone idee e strutturate nella maniera sbagliata.
Per questo ormai, da spettatore, parto molto prevenuto quando mi ritrovo davanti a scene di case possedute, croci rivoltate e sorrisi demoniaci e a volte, raramente, questo mio essere dubbioso mi porta a vedere pellicole che mi lasciano positivamente sorpreso; per me non è facile, amo l’horror, è un genere che mi ha sempre attirato a se: il fascino del proibito, i brividi e l’appeal della paura e delle ansie che possono scaturire nella mente e che ti accompagnano anche dopo la visione, di notte, quando sei solo con te stesso.
IL SETTIMO GIORNO è un film di stampo sovrannaturale, si parla di demonio, possessioni, bambini maledetti e un giovane prete esorcista che vuole fare la sua parte nell’eterna lotta tra bene e male.

La storia dell’allievo con il maestro che combattono fianco a fianco per un obiettivo comune, porta da sempre nella storia del Cinema la propria epicità, un senso di appartenenza e immedesimazione che riescono a creare grande pathos, come il passaggio di consegne tra padre e figlio; chi cede la propria esperienza a colui che può portare innovazione e infine creare un potere più forte.
Guy Pearce ha la faccia giusta per il ruolo che ricopre, austero quando serve, spavaldo e ovviamente l’outsider, colui che sa di essere il più grande in quello che fa ma non vuole etichettarsi o circoscriversi in un ruolo predefinito; lui non indossa la divisa da prete, sappiamo chi è dai suoi racconti, il suo passato delinea i contorni della sua figura, il classico personaggio che ha scheletri nell’armadio e usa metodi poco convenzionali per arrivare a far bene il suo lavoro. Nella parte finale il soggetto subisce un cambiamento che aumenta ancora di più lo spessore della sua figura e l’importanza all’interno del racconto, fulcro di tutti gli eventi accaduti e futuri.
Al contrario, Vadhir Derbez, non riesce a dare il giusto carisma al protagonista della pellicola, le sue espressioni lo fanno sembrare quasi sempre impaurito, confuso e nel posto sbagliato al momento sbagliato; Padre Daniel dovrebbe essere il Luke Skywalker della situazione, colui che ha un certo punto si rende conto delle sue potenzialità e assume il controllo della situazione, dei suoi “poteri”. Invece in questo caso, anche nella presa di coscienza finale, il suo sguardo nello specchietto retrovisore e il volto insanguinato risultano poco convincenti e di conseguenza neanche lo spettatore crede possibili le sue gesta.

Il racconto è comunque piacevole, si è cercato di creare una nuova dinamica all’interno di un genere stra-abusato e che quindi difficilmente può portare a forti innovazioni a meno che non sia dato in mano ad un maestro; ma in un mondo dove si deve cercare per forza di delineare in maniera netta il bello e il brutto, sono contento di aver visto una pellicola che non è ne un capolavoro ne una ciofeca, ma solamente una buona base per iniziare magari un viaggio che ci porterà verso altri lidi, contro altri preti (vedi finale del film).